L'analisi

Diritto all’oblio, più facile chiedere la deindicizzazione delle news: cosa cambia per siti e giornali

Con le “Disposizioni per la trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna nel testo emendato” presentate dal Ministro della Giustizia alla Camera si impone l’immediata possibilità di ottenere la deindicizzazione delle notizie con dati di persone assolte o la cui posizione giudiziaria è stata archiviata

Pubblicato il 05 Ago 2021

Luciano Daffarra

C-Lex Studio Legale

diritto all'oblio e informazione Cassazione

Una disposizione di legge che imporrà l’immediata facoltà di ottenere la deindicizzazione delle notizie che dovessero riportare i dati personali di chi ha ricevuto provvedimenti di archiviazione, di non luogo a procedere o di assoluzione in processi penali. Infatti, il Decreto di archiviazione e le sentenze di non luogo a procedere o di assoluzione devono costituire “titolo per l’emissione di un provvedimento di de-indicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati e degli imputati”.

Questa indicazione, relativa alla disciplina del diritto all’oblio, è contenuta nell’art. 13 del DDL n. 2435 – A presentato dal Ministro della giustizia alla Camera dei deputati con il titolo “Disposizioni per la trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna nel testo emendato”, che al paragrafo 25 stabilisce che i decreti legislativi delegati di attuazione delle modifiche del codice di procedura penale di cui al D. lgs. 271/1989 in materia di comunicazione delle sentenze, dovranno prevedere tale disposizione.

L’enunciato è rivolto prevalentemente ai gestori dei siti web e agli editori di giornali i quali si troveranno notificati numerosissimi provvedimenti assolutori per l’immediata rimozione dei nomi degli imputati e degli indagati cui tali atti si riferiscono e che la stampa aveva diffuso, in connessione ad indagini giudiziarie o a procedimenti penali, prima che le suddette decisioni scagionassero le persone coinvolte.

Il framework normativo sul diritto all’oblio

Per comprendere meglio la ratio di questa novella è opportuno spendere qualche parola in merito al diritto all’oblio e illustrare brevemente quale sia il trattamento che il nostro ordinamento giuridico riservi a tale istituto giuridico, soprattutto avuto riguardo agli atti giudiziari cui si rivolge la disposizione che verrà a breve introdotta fra le leggi dello Stato.

Il “diritto all’oblio”, nel mondo anglosassone definito “right to be forgotten”, ha assunto nel tempo un significato sempre più articolato ed esteso per effetto degli sviluppi dottrinali, giurisprudenziali e normativi che lo hanno riguardato.

Diritto all’oblio e deindicizzazione: quadro normativo e regole operative

In numerosi casi, la richiesta di fare calare l’oblio su determinati fatti e circostanze è legata al desiderio che ciascuno di noi può lecitamente nutrire di non essere più ricordato per il collegamento che sussiste fra la nostra persona e gli altri individui o determinati eventi in un certo momento storico. Spesso, si legge di persone le quali hanno vissuto intensamente una vita pubblica, anche di notorietà e di successo, che decidono di rescindere il loro legame con il loro passato e chiedono – anche attraverso azioni giudiziarie – che quanto di ciò risulti accessibile sui diversi media venga rimosso o, quantomeno, che venga inibita la possibilità che tali informazioni siano ulteriormente raggiungibili.

In questi termini, il diritto all’oblio appare come una declinazione del diritto alla riservatezza (“privacy”), una sorta di limitazione alla conoscenza degli accadimenti che lo riguardano, che l’individuo stesso pone a presidio della propria vita privata, escludendo gli altri dal trattamento di alcuni dei dati personali che egli non vuole vengano condivisi o non vuole che travalichino un determinato perimetro sociale.

Il “diritto all’oblio” assume poi un’ulteriore colorazione, quella di impedire che notizie riguardanti fatti del passato – inclusi quelli che possano essere ancor oggi stigmatizzati per il loro contenuto aberrante o illecito – si diffondano ulteriormente attraverso le reti di comunicazione: ci riferiamo all’interesse di ogni persona a cessare di vedere esposto al giudizio del pubblico fatti o circostanze lesive del proprio onore e della propria reputazione, a causa della circolazione di notizie che hanno riguardato comportamenti giudicati riprovevoli dalla società, oppure ancora fatti che taluni hanno trattato come illeciti, divulgandoli in tal guisa senza che essi rispondessero (o non rispondessero più) alla verità.

A tale proposito, molte volte leggiamo notizie di persone le quali vengono coinvolte in azioni giudiziarie di ampio raggio (e di lunga durata) subendo un’esposizione mediatica che le pone di fronte al giudizio sommario del grande pubblico dei lettori, senza che esse possano evitare la c.d. “gogna mediatica”, almeno fintanto che una decisione giudiziaria le sottragga a tale forzata ed ingiusta esposizione.

Diritto all’oblio e rimozione delle notizie

In questi casi il “diritto all’oblio” dovrebbe coniugarsi con il diritto a vedere la propria immagine e la propria reputazione restituite all’originaria integrità, ma – come sappiamo – ciò è assai difficile che possa accadere per la natura stessa dell’effetto immediato che provoca su ciascuno di noi la conoscenza di una determinata notizia, vera o falsa che essa sia. Un’opinione consolidata su questo tema è incline nel ritenere che l’ottenere la rettifica di una notizia diffamatoria esponga doppiamente il danneggiato alla diffamazione, piuttosto che porvi rimedio.

Di converso, in talune fattispecie, la rimozione delle notizie che riguardano fatti socialmente riprovevoli, appare altrettanto se non addirittura più grave della loro dimenticanza o della loro cancellazione, in quanto in un mondo basato sui collegamenti informatici, conoscere esattamente con chi ci rapportiamo e avere contezza di quelle che sono le eventuali condanne per gravi reati che un nostro interlocutore possa avere commesso, diviene uno strumento necessario per l’affidamento che ciascuno di noi deve potere almeno inizialmente riporre nell’altrui persona.

Cosa dice la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo

Il più qualificato organo giudiziario che con grande autorevolezza ha affrontato il tema del “diritto all’oblio” è la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, la quale ha deciso nel merito di alcuni casi di grande rilevanza che sono sorti nel tempo nei rapporti fra stampa digitale e “right to be forgotten” e che tale tribunale ha letto alla luce dell’Art. 8 della CEDU sul diritto alla libertà di pensiero e di informazione[1]. Con la sentenza n. 60798-65599/10 del 28 giugno 2018 la V Sezione della Corte EDU ha stabilito che il nome e il cognome di un soggetto coinvolto in un procedimento penale, seppure risalente nel tempo, possano essere pubblicati legittimamente purché ciò avvenga nel rispetto delle norme deontologiche che regolano la professione giornalistica e tale utilizzazione può avvenire fino a che perduri l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia.

Il caso

La successiva linea giurisprudenziale della Corte EDU, estrinsecatasi in particolare nella sentenza 71233/13 del 19 ottobre 2017 nel caso Fuchsmann c. Germania, ha confermato la liceità della pubblicazione dei dati personali di un imputato in un articolo on-line del New York Times il quale riferiva di indagini giudiziarie per corruzione riguardanti la sua persona, seppure fossero trascorsi numerosi anni dalla vicenda risalente all’anno 2001, in quanto secondo la Corte, in taluni casi – da valutarsi singolarmente da parte dei giudici del merito – il diritto di cronaca prevale sul diritto all’oblio e sulla stessa tutela dell’onore e della reputazione dei soggetti trattati, tanto da escludere la rimozione di una determinata notizia dagli archivi online dei quotidiani, in quanto gli stessi costituiscono una fonte fondamentale per le ricerche storiche.

Diritto all’oblio: le regole in Italia

È opportuno osservare che esistono da tempo nel nostro ordinamento regole che disciplinano l’uso dei dati personali dei soggetti coinvolti nei procedimenti civili, penali e amministrativi. Già nell’anno 2005, l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione ha pubblicato un documento di rilevante interesse dal titolo: “Corte di Cassazione e tutela della privacy: l’oscuramento dei dati identificativi delle sentenze”.

Si tratta di un compendio di 31 pagine in cui si illustra la situazione del trattamento dei dati personali delle parti nei processi civili e penali sin da dalla pubblicazione della L. 675/1996 (originaria Legge Privacy[2]), attraverso un percorso che è segnato dai numerosi “cippi” che sono stati posti dall’Autorità Garante dei Dati Personali al trattamento delle informazioni riportate negli atti giudiziari, ritenendosi – ad esempio- consentiti per i fini di giustizia di alcuni dati dei soggetti intercettati per via telefonica nel corso di procedimenti disciplinari, ovvero ancora l’utilizzazione dei dati personali delle parti nei processi ai fini della raccolta dei dati giurisprudenziali nei limiti delle finalità perseguite con tale trattamento.

In questo studio gli uffici della Cassazione osservavano poi che, avuto riguardo agli atti giudiziari, non sussistono garanzie di privacy per quanto attiene “i dati provenienti dai pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque, fermi restando i limiti e le modalità che le leggi, i regolamenti o la normativa comunitaria stabiliscono per la conoscibilità e pubblicità dei dati”.

Alla stregua di tale normativa – ricordava la relazione – il Garante Privacy “aveva affermato che il calendario dei processi, le udienze e le sentenze sono pubblici e conoscibili da chiunque vi abbia interesse, secondo le modalità regolate dal codice di rito e dalle altre norme processuali”[3]. Rientravano fra i dati personali che potevano essere oggetto di trattamento lecito anche i nominativi degli indagati rinviati a giudizio, come pure quelli dei condannati per qualsiasi reato.

Dato atto di quanto precede, l’ufficio del massimario della Cassazione evidenziava poi le modifiche intervenute nel trattamento dei dati identificativi degli interessati a seguito dell’introduzione del Codice Privacy del 2003 e, segnatamente, di quanto stabilito negli artt. 51 e 52 del suo testo[4]. Con le suddette previsioni si è voluto favorire lo sviluppo dell’informazione giuridica, offrendo la disponibilità al pubblico delle sentenze di ogni ordine e grado, anche attraverso la rete internet, includendo fra le informazioni disponibili le generalità delle parti e dei terzi coinvolti nelle vicende giudiziarie, fermo restando che taluni dati sensibili (ad es. quelli sulla salute o sulla vita sessuale o sulle generalità dei minori) non possono essere resi conoscibili agli utenti.

I motivi di legittimità

La stessa norma dell’Art. 52 del Codice Privacy indica i casi in cui, nella sussistenza di motivi legittimi esplicitati nella domanda, l’interessato può chiedere – mediante istanza depositata in cancelleria prima della definizione di quel grado di giudizio – che nel provvedimento giudiziale venga iscritta un’annotazione volta ad escludere, nelle sue riproduzioni in qualunque forma e modo realizzate, l’indicazione dei dati identificativi dell’istante, anche qualora essi possano essere altrove o indirettamente deducibili dall’esame di quel provvedimento[5].

Avuto riguardo ai dati afferenti all’applicazione delle misure restrittive della libertà nel settore penale, ove l’esigenza di riservatezza è elevata, la III Sezione Civile della Corte di Cassazione è intervenuta con la Sent. 5525/2012[6] con cui si è stabilito che l’editore di una testata giornalistica (al pari di ogni gestore di siti web di informazione) che pubblichi tali notizie è obbligato a tenere aggiornati gli articoli e la propria banca di dati che riportino le informazioni su tali procedimenti.

La pronuncia del Garante privacy italiano

Sulla specifica questione dell’aggiornamento delle notizie di carattere giudiziario anche il Garante Privacy si è pronunciato in due distinte occasioni nell’anno 2012[7] ordinando agli editori di rendere operativo in seno alla propria redazione “un sistema idoneo a segnalare (ad esempio, a margine dei singoli articoli o in nota agli stessi) l´esistenza degli sviluppi delle notizie relative al ricorrente, secondo le indicazioni dallo stesso formulate nell´atto di ricorso o mediante altra formulazione idonea…”.

Diritto all’oblio e corretta informazione del pubblico

Di conseguenza, c’è da chiedersi se la finalità della de-indicizzazione cui la proposta di “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti di appello” fa riferimento all’Art. 13, assolva effettivamente alle finalità di corretta informazione del pubblico circa l’andamento della giustizia che ogni Paese dovrebbe garantire ai propri cittadini o non appaia piuttosto come uno strumento di rimozione ad nutum della persona sottoposta a processo di fatti storici che possono essere rilevanti, anche se opportunamente e doverosamente corretti, ogniqualvolta l’intervento dell’autorità giudiziaria ne modifichi il contenuto.

Se è vero, infatti, che la de-indicizzazione è lo strumento principe per fare osservare la garanzia del “diritto all’oblio” (Cass. Civ. Ord. 7559/2020 – I Sezione Civile del 27 marzo 2020) e ciò nelle ipotesi in cui si rende necessario un corretto bilanciamento tra gli interessi dell’editore, che vuole conservare la notizia, e quelli del soggetto che vuole che essa sia dimenticata, il medesimo ragionamento non pare applicabile ove, ad esempio, alla notizia di una condanna di un indagato in primo grado faccia seguito quella dell’assoluzione in appello, dal momento che essa, più che essere meritevole di un’opzione di cancellazione, pare essere portatrice di un seppure tardivo riconoscimento di innocenza che andrebbe pubblicamente riconosciuto tanto da doversi escludere la sua rimovibilità dalla rete, se non dopo che sia trascorso il lasso temporale che ne giustifichi l’oblio.

 

NOTE

  1. Va ricordato che il diritto all’oblio è sorto per la prima volta dalla interpretazione delle norme sulla privacy nella nota decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, resa nella causa C-131/12 Google Spain https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:62012CJ0131.I principi sviluppati in tale decisione sono stati ripresi ed ulteriormente approfonditi, avuto specifico riguardo all’accesso ai dati personali dei soci di imprese registrate, decorso un periodo di tempo significativamente lungo dopo lo scioglimento dell’impresa stessa, nella causa C-398/15, Manni.

  2. La normativa sulla Privacy è attualmente disciplinata in Italia dal D.Lgsl. 101/2018 che ha dato attuazione al Regolamento EU/679/2016 (GDPR) e ha modificato il D. Lgsl. 196/2003 sulla medesima materia.

  3. La Cassazione segnalava a tale proposito una serie di provvedimenti del Garante Privacy intervenuti sino all’anno 2001 i quali tutti ribadivano l’ampiezza delle informazioni sulle vicende giudiziarie conoscibili al pubblico, fra cui il Provvedimento del Garante in data 30 ottobre 2001 in B.U. n. 23/2001, pag. 22.

  4. Questo il testo delle due disposizioni in argomento, contenute nel D. Lgsl. 196/2003, come modificato con il D. Lgsl. 101/2018.

    Art. 51. Principi generali 1. Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni processuali concernenti la visione e il rilascio di estratti e di copie di atti e documenti, i dati identificativi delle questioni pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado sono resi accessibili a chi vi abbia interesse anche mediante reti di comunicazione elettronica, ivi compreso il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet. 2. Le sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando le cautele previste dal presente capo.

    Art. 52. Dati identificativi degli interessati 1. Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni concernenti la redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado, l’interessato può chiedere per motivi legittimi, con richiesta depositata nella cancelleria o segreteria dell’ufficio che procede prima che sia definito il relativo grado di giudizio, che sia apposta a cura della medesima cancelleria o segreteria, sull’originale della sentenza o del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento. 2. Sulla richiesta di cui al comma 1 provvede in calce con decreto, senza ulteriori formalità, l’autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento. La medesima autorità può disporre d’ufficio che sia apposta l’annotazione di cui al comma 1, a tutela dei diritti o della dignità degli interessati. 3. Nei casi di cui ai commi 1 e 2, all’atto del deposito della sentenza o provvedimento, la cancelleria o segreteria vi appone e sottoscrive anche con timbro la seguente annotazione, recante l’indicazione degli estremi del presente articolo: ‘In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di …”. 4. In caso di diffusione anche da parte di terzi di sentenze o di altri provvedimenti recanti l’annotazione di cui al comma 2, o delle relative massime giuridiche, è omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi dell’interessato. 5. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 734-bis del codice penale relativamente alle persone offese da atti di violenza sessuale, chiunque diffonde sentenze o altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado è tenuto ad omettere in ogni caso, anche in mancanza dell’annotazione di cui al comma 2, le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l’identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone. 6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche in caso di deposito di lodo ai sensi dell’articolo 825 del codice di procedura civile. La parte può formulare agli arbitri la richiesta di cui al comma 1 prima della pronuncia del lodo e gli arbitri appongono sul lodo l’annotazione di cui al comma 3, anche ai sensi del comma 2. Il collegio arbitrale costituito presso la camera arbitrale per i lavori pubblici ai sensi dell’articolo 209 del Codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, provvede in modo analogo in caso di richiesta di una parte. Garante per la protezione dei dati personali. 7. Fuori dei casi indicati nel presente articolo è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali.

  5. La medesima regola si desume dal Regolamento della CEDU che, all’art. 47, consente che la sentenza venga pubblicata mantenendo l’anonimato della parte che ne faccia richiesta.

  6. Questa la sentenza

  7. I due provvedimenti in questione portano rispettivamente la data del 20 dicembre 2012 e del 24 gennaio 2013

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