Ogni volta che si parla di storia della crittografia, i nomi di Alice e Bob tornano puntuali, come se fossero i protagonisti silenziosi di ogni spiegazione.
Non sono personaggi di fantasia, bensì strumenti narrativi che hanno reso accessibile a tutti un sapere complesso, unendo tecnici, studiosi, avvocati, formatori e studenti in un linguaggio comune.
In questo primo contributo di una trilogia che intende raccontare la crittografia non come un insieme di formule, ma come una storia di fiducia, relazioni e sicurezza, scopriamo le origini di Alice e Bob. Ecco chi sono e perché sono diventati così importanti.
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Alice e Bob: come hanno cambiato la narrazione e la storia della crittografia
Nati nel 1978 per rendere la crittografia più semplice da spiegare e più facile da comprendere, Alice e Bob non parlano solo di algoritmi, ma, in fondo, anche di noi.
Non sono personaggi di fantasia. Ma sono strumenti narrativi che hanno reso un sapere complesso, come la crittografia, accessibile a tutti, unendo tecnici, studiosi, avvocati, formatori e studenti in un linguaggio comune.
Un linguaggio nuovo per un problema antico
La crittografia non è una scoperta moderna. È un’arte antica, che accompagna l’umanità da secoli, in ogni occasione in cui c’era qualcosa da proteggere, nascondere o custodire.
Per migliaia di anni è stata usata per trasmettere ordini in guerra, per tenere al sicuro informazioni sensibili, per scambiare segreti tra sovrani, mercanti o generali.
Ma in quei contesti bastava nascondere il messaggio. Bastava tenere lontano l’intruso.
Poi è arrivato il mondo digitale. Un mondo in cui tutto si muove in tempo reale, ovunque, tra persone, sistemi, piattaforme, algoritmi. Un mondo in cui non c’è più un confine fisico da difendere, ma una fiducia da costruire, ogni volta, da zero.
Oggi non basta più cifrare. Bisogna anche dimostrare chi sei. Non è sufficiente chiudere a chiave un contenuto, ma occorre garantire che non venga alterato, intercettato, manipolato. E ancora, non basta proteggere un dato: è necessario difendere la relazione che quel dato rappresenta.
Ed è proprio in questo scenario, così complesso e in evoluzione, che accade qualcosa di sorprendente.
Nel 1978, in un articolo destinato a cambiare tutto, compaiono per la prima volta due nomi semplici e familiari: Alice e Bob.
Con loro, la crittografia smette di parlare solo con numeri e simboli e comincia a raccontarsi, parlando alle persone.
Quell’intuizione – dare nomi e volti ai soggetti della crittografia – segna l’inizio di un nuovo modo di insegnare, di capire e di raccontare la sicurezza.
Per la prima volta, un linguaggio tecnico diventa narrativo. Un protocollo matematico si trasforma in una storia di fiducia, ingegno e protezione reciproca.
Primo capitolo di una trilogia
Raccontiamo questa storia a tappe, come si fa con le storie importanti, suddivisa in tre episodi, o meglio, tre capitoli di un racconto che si costruisce passo dopo passo. Perché certi temi non si spiegano tutti insieme, ma si ascoltano, si assaporano, si capiscono un pezzo alla volta, per raccontare:
- come sono nati Alice e Bob, perché hanno avuto successo e cosa rappresentano oggi;
- nel secondo, daremo voce ai personaggi che li circondano: Eve, Mallory, Trent e gli altri, perché ogni storia ha anche i suoi antagonisti, i suoi garanti, i suoi testimoni;
- nel terzo capitolo della trilogia, faremo un passo in più, accorgerendoci che Alice e Bob siamo noi e che, in fondo, queste storie parlano di come viviamo la fiducia nel digitale, ogni giorno.
Questa non è solo una storia. È una presa di coscienza, perché quando muta il linguaggio, cambia anche il modo di vedere il mondo. E Alice e Bob ci hanno aiutato a farlo con parole semplici, in una storia vera che ora è anche la nostra.
Tutto comincia con un cambio di paradigma: l’avvento di RSA
L’inizio di questa storia è datata 1978, quando tre matematici americani – Ron Rivest, Adi Shamir e Leonard Adleman – pubblicano un articolo destinato a lasciare il segno: ”A Method for Obtaining Digital Signatures and Public-Key Cryptosystems”.
In quelle pagine nasce l’algoritmo, che rivoluziona la crittografia moderna introducendo il concetto di chiavi asimmetriche. Per la prima volta, la sicurezza non si basava più su una chiave segreta condivisa tra le parti, ma su un sistema a doppia chiave: una pubblica per cifrare, una privata per decifrare. Un cambio di paradigma. Un salto culturale.
Ma c’era un problema, capire come spiegare tutto questo a chi non fosse un matematico. Era importante raccontare in modo accessibile una tecnologia tanto potente quanto complessa. La risposta non poteva essere un’equazione, ma una frase.
Invece di dire “A invia un messaggio a B”, scrissero: “Supponiamo che Alice voglia inviare un messaggio segreto a Bob”. Una scelta semplice che rappresentò una svolta. Perché da quel momento, la crittografia smette di essere solo matematica e diventa una storia da raccontare.
Alice e Bob non sono solo nomi sono anche strumenti narrativi, elementi di un nuovo linguaggio.
Una svolta culturale travestita da semplicità
Dare un nome ai protagonisti della crittografia – Alice e Bob – non fu una scelta estetica, bensì un gesto pedagogico potentissimo, capace di cambiare per sempre il modo in cui si racconta la sicurezza.
Fino a quel momento, la crittografia parlava con un linguaggio freddo, fatto di anonime lettere di formule, di insiemi e frecce. Poi, all’improvviso, diventa una storia tra persone.
C’è Alice, che ha qualcosa da dire. C’è Bob, che deve ricevere un suo messaggio senza che nessuno possa spiare o interferire. E tra loro c’è una rete insicura, un territorio ostile, dove tutto può essere intercettato, manipolato, deviato.
Con questa semplice rappresentazione, la tecnica si umanizza. Non si parla più solo di dati ed algoritmi. Si parla di fiducia, identità, protezione.
E da quel momento in poi, chi insegna crittografia non ha più bisogno di formule complesse. Gli basta dire: “Alice vuole inviare un messaggio segreto a Bob”. E qualcosa scatta, ma soprattutto tutti capiscono e si orientano, entrando finalmente nella storia.
Da esempio didattico a icona culturale
Quella semplice frase non resta confinata a una pubblicazione scientifica. Non rimane chiusa nelle righe di un paper.
In pochi anni, esce dai laboratori e invade il mondo reale della formazione, della ricerca, della comunicazione tecnica.
Alice e Bob cominciano a popolare manuali universitari, white paper, corsi aziendali, guide operative.
Appaiono nei materiali di lavoro di autorità pubbliche, enti regolatori, gruppi di standardizzazione. Dove si parla di crittografia – sia essa simmetrica o asimmetrica, di firme digitali, di autenticazione a più fattori, di protocolli sicuri – loro ci sono sempre.
Ma non è solo una questione di abitudine. Il loro successo si spiega con una forza rara, quella di essere simboli duttili, capaci di adattarsi a qualsiasi scenario.
Infastti Alice può essere un cittadino, una banca, un medico, un algoritmo. Bob invece può essere un server, un amico, un ente pubblico, un robot.
Qualunque sia la tecnologia in gioco, loro rappresentano la fiducia che dobbiamo costruire, ogni volta che comunichiamo nel digitale.
Il lessico familiare per spiegare la complessità con parole semplici
L’elemento più potente di questa storia della crittografia è che parlano la lingua delle persone, non quella delle macchine. Non servono prerequisiti per capirli, non bisogna consultare glossari, non occorrono tabelle. Basta l’esperienza umana: l’intenzione di dire qualcosa a qualcuno, e volerlo fare in modo sicuro.
Con il tempo, Alice e Bob smontano il mito dell’incomprensibilità tecnica e diventano una grammatica narrativa condivisa, una specie di lessico comune per spiegare la complessità.
Quando si parla di loro, non si sta solo insegnando qualcosa. Si sta entrando in una comunità di significato, fatta di rigore, consapevolezza e connessione, capace di unire tecnici e giuristi, ingegneri e filosofi, docenti e studenti, esperti e curiosi.
In fondo, Alice e Bob non sono mai stati soltanto un esempio. Sono diventati un modo di pensare e di spiegare il digitale, un punto di riferimento culturale in un mondo che cambia.
Non potevano restare soli
Alice e Bob sono stati i primi a rendere la crittografia comprensibile. I pionieri a dare un volto umano a un mondo fatto di algoritmi, chiavi segrete e protocolli. Ma non potevano restare soli.
La sicurezza informatica è fatta anche di minacce, inganni, arbitri e verifiche. E così, attorno a loro, si è formato un vero e proprio teatro della crittografia. Un palcoscenico in cui ogni personaggio ha un ruolo preciso, quasi archetipico.
C’è chi ascolta di nascosto, cercando di carpire i segreti (Eve); chi manipola, mente, inganna (Mallory) e chi funge da terza parte fidata, da garante imparziale (Trent).
E poi ci sono Peggy, Victor, Oscar. Ognuno svolge una funzione educativa ben definita.
Non si tratta di un gioco, ma di una drammaturgia simbolica, costruita per insegnare la complessità, rendendo visibili e comprensibili le dinamiche invisibili del rischio digitale.
Ognuno di questi personaggi rappresenta un pericolo, una sfida, una possibile soluzione.
Con loro, la crittografia si trasforma da materia tecnica a narrazione educativa.
Nel secondo capitolo di questa trilogia, entreremo proprio in questo teatro della sicurezza.
Nei prossimi capitoli, sulla storia della crittografia, scopriremo chi sono davvero Eve, Mallory, Trent e gli altri. Capiremo perché servono, cosa rappresentano e come ci aiutano a raccontare – e gestire – la complessità della fiducia nel digitale, lungo un affascinante viaggio tra identità finte, ruoli ambigui e meccanismi invisibili.