Grazie ad Alice e Bob, e alla compagnia teatrale della crittografia (Eve che ascolta, Mallory che mente, Trent che certifica, Peggy che dimostra), abbiamo visto come questi nomi abbiano umanizzato la teoria, rendendo accessibile, visualizzabile, trasmissibile una delle discipline più complesse dell’era digitale.
Questi protagonisti raccontano, in fondo, ciò che viviamo ogni giorno: l’esigenza di proteggerci, capirci, autenticarci e fidarci.
Ora è tempo di guardare più a fondo. Perché questi personaggi non vivono solo nei protocolli, vivono in noi. Siamo noi.
Ogni giorno, nelle nostre scelte digitali, nei nostri gesti automatici, nei timori e nelle precauzioni, replichiamo la storia di Alice e Bob.
Con questo terzo capitolo finale della trilogia cyber, si chiude il cerchio, dimostrando come la crittografia sia un atto umano, prima ancora che tecnico. Una grammatica invisibile della fiducia che usiamo senza sapere.
Indice degli argomenti
Fiducia, paura, identità: i veri protagonisti della sicurezza
La crittografia, se guardata con occhi nuovi, non è composta solo di codici o algoritmi. È fatta di relazioni. Relazioni che si costruiscono, mettondosi alla prova, rompendosi, ricucendosi.
Ogni volta che due entità devono comunicare in un ambiente ostile o incerto, serve qualcosa di più di un protocollo tecnico: serve fiducia. Non cieca, neanche ingenua, ma fiducia costruita, verificata e resa possibile da strumenti precisi.
Alice si fida di Bob. Ma non si fida della rete che li collega. Ecco il cuore del problema: come mantenere il legame tra chi comunica, in un mondo pieno di occhi, mani ed orecchie sconosciute.
È qui che entra in gioco la crittografia. Non come una barriera, ma come un ponte, che protegge, che filtra, che verifica.
E in tutto questo, Alice e Bob siamo noi, ogni volta che inviamo un messaggio personale, che effettuiamo un pagamento online, che entriamo in una piattaforma con le nostre credenziali.
In quelle occasioni non vogliamo solo “proteggere un dato”; vogliamo anche sapere con chi stiamo parlando. Vogliamo che il nostro messaggio arrivi integro, invisibile agli altri, intatto.
In fondo, desideriamo non essere traditi.
Tutto questo accade in pochi istanti, nel silenzio di protocolli invisibili ma riflette dinamiche profondamente umane: la paura di essere ingannati, il bisogno di fidarci e l’urgenza di sapere chi è davvero l’altro.
Ed è qui che la sicurezza diventa narrazione. Un racconto che parla di noi.
Crittografia: la libertà che si costruisce in silenzio
Quando Alice decide di proteggere il proprio messaggio, non sta semplicemente attivando una funzione tecnica. Sta compiendo un gesto di libertà ed esercitando un diritto che le appartiene come persona: il diritto a comunicare in modo sicuro, riservato, libero da interferenze.
Allo stesso modo, quando Bob riceve quel messaggio e può fidarsi del fatto che non sia stato manomesso, può agire con tranquillità e certezza. Può contare su un sistema che rispetta la verità di ciò che scambia.
In questo dialogo tra fiducia e protezione, la crittografia smette di essere solo uno strumento tecnico. Diventa un esercizio di diritti e libertà, uno strumento concreto di cittadinanza digitale. È un modo per dire: “Voglio che solo la persona giusta possa leggere quello che scrivo”. “Voglio essere sicuro che nessuno possa simulare di essere me e che ciò che mi appartiene non venga sottratto, copiato e distorto”.
Ogni volta in cui inviamo un messaggio cifrato, in cui firmiamo un documento digitale, accediamo a un servizio con un’autenticazione forte, stiamo prendendo una posizione. Stiamo dicendo: “Mi prendo cura della mia identità”. “Scelgo di vivere il digitale con consapevolezza, non con rassegnazione”.
E questo accade milioni di volte al giorno, in ogni parte del mondo, attraverso ogni dispositivo, app, sito.
È così che la crittografia mostra il suo volto più profondo. Non un privilegio per
tecnici, ma un diritto quotidiano per ogni cittadino libero.
Comprendere la crittografia significa comprendere noi stessi
C’è un punto esatto in cui la crittografia smette di sembrare una materia per tecnici e diventa qualcosa che ci riguarda da vicino. Accade quando si scopre che parole apparentemente fredde – autenticazione, integrità, non ripudio – descrivono in realtà i pilastri su cui si fondano le nostre relazioni più intime e quotidiane.
Infatti, non vogliamo solo mandare un messaggio. Vogliamo essere sicuri che arrivi alla persona giusta e che nessuno lo abbia cambiato lungo la strada e che chi lo riceve non possa dire, un giorno, “non l’ho mai ricevuto”.
Non è linguaggio tecnico. È questione di fiducia, responsabilità, trasparenza. È la grammatica essenziale di ogni relazione umana, tradotta nel linguaggio dei bit.
Ecco perché la crittografia è molto più di una tecnica, ma uno specchio. Un modo per leggere le nostre paure, i nostri bisogni, i nostri legami, in un mondo che ci espone, ci connette e ci mette alla prova.
Capire Alice e Bob, Eve e Mallory, non è un esercizio da specialisti. È un percorso per capire come funziona la fiducia, come si costruisce e si difende.
È comprendere – in fondo – che la sicurezza digitale non è fatta solo di codici e certificati, ma di noi.
Di ciò che vogliamo proteggere. E del modo in cui scegliamo di vivere e comunicare nel mondo connesso.
Siamo già tutti parte della scena
La verità è che, senza rendercene conto, ogni giorno viviamo dentro il teatro della crittografia. Non come spettatori, bensì come protagonisti.
Quando inseriamo quel codice OTP che ci arriva tramite Sms per accedere alla nostra banca, stiamo dicendo con un gesto: “Sono davvero io. Questa identità mi appartiene.”
Ogni volte in cui controlliamo se un sito ha il famoso lucchetto verde accanto all’indirizzo, stiamo dichiarando, senza parole: “Mi fido. Qualcuno ha garantito per lui. Posso entrare”.
Appena cifriamo un’email, magari per proteggere un documento importante, stiamo dicendo: “Queste parole sono per te soltanto. Nessun altro ha il diritto di leggerle”.
Così, senza accorgercene, diventiamo i personaggi di quella scena. Siamo Alice quando inviamo un messaggio importante con fiducia. Siamo Bob quando lo riceviamo e vogliamo esserne certi. Impersoniamo Trent quando firmiamo un certificato o convalidiamo l’identità di qualcuno. Ma siamo anche Eve, se ascoltiamo o guardiamo ciò che non ci è destinato. Infine, possiamo diventare Mallory, quando modifichiamo una comunicazione o condividiamo qualcosa che non dovremmo, seppur in buona fede.
La crittografia non è più un sapere da specialisti, ma una grammatica che tutti usiamo, anche se non la chiamiamo con il suo nome. È già nei nostri gesti quotidiani, nei nostri scambi digitali, nei nostri automatismi.
Renderla visibile, raccontarla attraverso i suoi personaggi, ci aiuta a cambiare prospettiva. A prendere coscienza, capendo che la sicurezza non è fatta solo di regole e tecnologie. Invece è fatta di noi, dei nostri comportamenti, delle nostre scelte.
E questa consapevolezza – semplice ma profonda – è il primo passo per diventare cittadini digitali veramente liberi, capaci di difendersi, di scegliere, di agire.
Alice e Bob: non più metafore per specialisti, ma strumenti per tutti
Alla fine di questo viaggio, non possiamo più nutrire dubbi. Alice non è solo un nome su un protocollo né è un’invenzione da laboratorio.
Alice siamo noi, ogni volta che chiediamo sicurezza in una comunicazione, quando vogliamo essere certi che ciò che inviamo arrivi integro, intatto, non spiato. Ogni volta che vogliamo sapere chi c’è davvero dall’altra parte, prima di aprirci e di fidarci.
Ma anche Bob siamo noi, quando riceviamo un’informazione e vogliamo sapere se è autentica, se è quella giusta.
Inoltre, Trent siamo noi, quando garantiamo l’identità di qualcuno. Eve ci osserva da dentro, ogni volta che cediamo alla tentazione di leggere ciò che non è per noi. Infine, Mallory è il pericolo latente che ci ricorda quanto sia facile – anche involontariamente – alterare, confondere, tradire.
La crittografia, a guardar bene, non è mai stata solo una scienza matematica. È diventata un linguaggio civile. Una grammatica della fiducia. Un codice che ci aiuta a spiegare e a proteggere le nostre relazioni nel mondo invisibile che abitiamo ogni giorno, quello dei dati, delle reti, dei segnali che viaggiano nel silenzio.
Dunque, Alice e Bob non sono più metafore per specialisti ma sono diventati strumenti per tutti. Modi per raccontare ciò che, altrimenti, resterebbe oscuro. Modalità per vedere, spiegare, difendere ciò che conta veramente: la nostra identità, la nostra libertà, il nostro modo di stare in rete.
Per questo motivo, Alice e Bob sono immortali. Infatti rappresentano ogni persona che, in un mondo incerto, decide comunque di fidarsi. Con intelligenza, prudenza e consapevolezza.
Infine, se oggi la sicurezza può essere raccontata, capita, insegnata, è perché questa storia – iniziata con due nomi e una comunicazione segreta – ha toccato qualcosa di profondamente umano. Non è una storia di numeri, ma una narrazione di fiducia e quindi, in fondo, è anche la nostra storia.










