LA SENTENZA DEL TAR LAZIO

No all’accesso civico generalizzato da parte dei media su beni culturali privati: prevale la privacy

L’accesso civico e generalizzato esercitato dai media non può essere preteso indiscriminatamente. A stabilirlo è una recente sentenza del Tar Lazio che ha bocciato la richiesta di una nota trasmissione televisiva interessata a conoscere dati di natura personale concernenti beni culturali (opere d’arte) di proprietà privata

Pubblicato il 11 Gen 2024

Chiara Ponti

Avvocato, Privacy Specialist & Legal Compliance e nuove tecnologie – Giornalista

Accesso civico e generalizzato privacy beni culturali

In una vertenza tra eredi di un nota famiglia torinese e il Ministero della Cultura al quale un giornalista di una nota trasmissione televisiva aveva fatto richiesta di accesso civico e generalizzato per conoscere, nella fattispecie, l’elenco dei nomi dei proprietari di opere d’arte trasferite presumibilmente all’estero., il TAR del Lazio, Sez. II quater, con la sentenza n. 19889 del 28 dicembre 2023, ha dato ragione agli eredi vietando la comunicazione di quanto richiesto dai media.

Nel motivare il diniego, i giudici amministrativi hanno, tra l’altro, ben distinto tra dati soggettivi e oggettivi affermando che l’accessibilità ai dati personali (come, ad esempio, i nomi dei proprietari) e la loro divulgazione sono sì possibili, ma solo in presenza di un rilevante interesse pubblico. Cosa ben diversa dall’interesse del pubblico.

Analizziamo la sentenza passo dopo passo.

I fatti di causa

I fatti di causa sono complessi, pertanto li trattiamo per posizioni assunte nel corso della causa.

La posizione dei media: l’istanza del giornalista

Un giornalista televisivo faceva istanza di accesso civico generalizzato ex art. 5, co. II del D.lgs. 33/2013 alla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana e al Segretariato Regionale per il Piemonte del Ministero della cultura, nonché alla Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio e alla Soprintendenza Speciale di Roma del medesimo Ministero.

Nello specifico, il giornalista era interessato a conoscere sostanzialmente di una serie di dati/informazioni circa le opere d’arte dichiarate di interesse culturale, appartenenti ad una nota famiglia che ha contribuito a creare parte della storia (industriale) di Torino.

La posizione degli eredi e le loro tesi difensive

Gli eredi/interessati appreso di questa istanza, presentavano a loro volta opposizione ritenendo la richiesta “inconferente, non necessaria, e non proporzionata rispetto allo scopo tipico dell’istituto della richiesta di accesso civico generalizzato”, essendo quest’ultimo “strumentale alla ricerca di informazioni “soggettive” anziché “oggettive” nonché “…seriamente pregiudizievole per tutela dei dati personali e della sfera di riservatezza delle persone fisiche/controinteressati”.

Seguivano una serie di note anche in “aggiornamento” e di repliche tra le parti in causa. Se da un lato, gli eredi lamentavano resistendo, dall’altro i media ravvisano convintamente una violazione della normativa in materia di accesso civico generalizzato evidenziando come una tale richiesta fosse stata presentata per “ragioni di pubblico interesse”, al fine di ottenere dati/informazioni afferenti allo svolgimento della professione giornalistica. In pratica, a motivo dell’istanza c’era il diritto all’interesse del pubblico (informazione).

La posizione dell’istituzione coinvolta: MIC

La Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Ministero della cultura, a conclusione del procedimento, accoglieva la richiesta di accesso civico cd “generalizzato”, “invitando gli uffici ministeriali indicati in indirizzo a fornire la documentazione richiesta con la massima celerità” (non oltre 10 giorni), purché fossero oscurati tutti i dati personali.

Avverso tale accoglimento gli eredi della nota famiglia torinese insorgevano chiedendone l’annullamento, per eccesso di potere, per sviamento e difetto di presupposti nonché di istruttoria, carenza di motivazione, contraddittorietà e manifesta illogicità, anche in relazione alla valutazione del bilanciamento degli interessi in gioco e del pregiudizio subito dagli interessati.

Il Ministero della Cultura (MIC) si costituiva in giudizio dicendo che l’accoglimento della richiesta aveva inteso “garantire il diritto di cronaca e la libertà di informazione” richiamando al riguardo anche l’orientamento espresso dal Garante della Privacy con delibera n. 491 del 29 novembre 2018 in materia di “regole deontologiche relative al trattamento di dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”.

Non solo, evidenziava altresì che, in materia di accesso (civico) generalizzato, l’interesse pubblico è in re ipsa cioè nella natura dello stesso, trovando, nel caso di specie, conferma nella posizione/cariche politiche ricoperte in passato dai componenti della celeberrima famiglia.

Di conseguenza, “il bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco è stato correttamente operato” tenuto altresì conto che di dati (ex) sensibili/sensibilissimi non era stata avanzata nessuna pretesa di conoscenza/conoscibilità, nel rispetto del criterio di proporzionalità e quindi dei parametri evidenziati dal Garante privacy, evitando così un concreto pregiudizio in capo all’interessato.

La posizione della RAI

Anche la Radiotelevisione italiana S.p.A. – RAI è intervenuta in giudizio, per via della legittima “titolarità di un interesse giuridico qualificato quale concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo”; e nel merito ripropone, sostanzialmente, le difese sviluppate dal giornalista/controinteressato, puntualizzando che “la proprietà di un bene culturale non costituisce un dato personale”.

Nella fattispecie RAI nel resistere, ha preso posizione sulla ratio dell’accesso civico generalizzato, escludendo “un giudizio di meritevolezza dell’interesse perseguito dal richiedente sulla normativa in tema di protezione del patrimonio culturale italiano, che porta a desumere l’esistenza di “un chiaro interesse dei cittadini a sapere se l’Amministrazione ne abbia fatta una corretta applicazione” o meno, così si legge testualmente.

Non solo, la RAI costituitasi, avanza tra le difese anche la “libertà del trattamento dei dati personali effettuato nell’esercizio dell’attività giornalistica ai sensi dell’art. 85 G.D.P.R. e sulla comunicabilità dei dati personali contenuti in documenti ufficiali ai sensi del successivo art. 86”.

A livello processuale, ci sono poi stati tutta una serie di atti anche di annullamento in autotutela, ovvero eccezioni di inammissibilità, sospensioni di tipo processuale, motivi aggiunti, memorie anche di replica depositate dalle parti ai quali si rinvia, per completezza.

I motivi di diritto, per punti

In diritto, il Collegio del Tribunale Amministrativo Regionale – TAR per il Lazio ricostruisce la vicenda giungendo alla conclusione che “la tesi propugnata dai ricorrenti non convince per alcune ragioni. Ma andiamo per gradi.

L’eccezione preliminare

Pregiudizialmente, i giudici amministrativi osservano come nessun elemento obiettivo induca a ritenere che RAI fosse o dovesse essere effettivamente a conoscenza dell’avvenuta presentazione a maggior ragione che la richiesta proveniva da un “… LIBERO PROFESSIONISTA (GIORNALISTA presso Rai Radio televisione italiana)” adoperando la e-mail aziendale.

Poi, argomentano sin da subito che sulla tutela dei beni culturali, i beni culturali nazionali costituiscono un “interesse pubblico “sensibile”, nel senso essendo di patrimonio culturale italiano sono, per ciò stesso, coperti da tutela Costituzionale (artt. 9 e 117, comma II, lett. s).

Nel merito della vicenda: l’accesso civico generalizzato

Nel merito della vicenda, il Tar del Lazio accoglie in definitiva il ricorso introduttivo, ma prima offre una eloquente disamina del quadro disciplinare che regola tanto l’istituto dell’accesso civico generalizzato, quanto la “materia” della tutela e valorizzazione dei beni culturali.

Più nel dettaglio, viene spiegato bene l’istituto dell’accesso civico generalizzato, inquadrandolo correttamente nel corpus normativo del D.lgs. n. 33 del 2013, sul modello statunitense del Freedom of information Act (FOIA) configurandosi “quale diritto di chiunque ad accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni” al fine di “favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”.

In pratica, i dati pubblici in quanto tali possono essere conosciuti, e perciò sono astrattamente conoscibili, da chicchessia.

Ciò che rileva, infatti, scrivono i giudici suffragati da un orientamento dell’Adunanza Plenaria dell’aprile 2020 (la n. 10), è il bisogno di conoscenza (need to know) da tenersi distinto dal “desiderio di conoscenza” sul quale è improntato il “nuovo” accesso civico generalizzato. A maggior ragione che il diritto di accesso è tutelato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 42) e dalla CEDU (art. 10) annoverando la libertà di ricevere informazioni quale libertà di espressione, tra i diritti e le libertà fondamentali.

L’accesso civico generalizzato non è incondizionato

Il TAR tiene poi a precisare che l’istituto dell’accesso civico generalizzato non deve essere incondizionato, ma limitato alla tutela dei cd “interessi giuridicamente rilevanti” (art. 5-bis).

Ne consegue che occorra indagare concretamente quando l’accesso civico generalizzato sia consentito e quando no, circa le informazioni/documentazioni concernenti i poteri di tutela dei beni culturali, e dunque dei dati pubblici.

Sì all’accesso civico generalizzato ai beni culturali privati, ma con istanza formulata secondo oggettività

Il TAR si sofferma accuratamente sulla circostanza dei beni appartenenti a privati e annessa tutela affermando che sia bene partire da “un delicato bilanciamento tra l’interesse pubblico sotteso (art. 9 Cost.) e la proprietà privata”. Si tratta di un bilanciamento che opera su di un piano di diritto sostanziale, partendo dal presupposto del loro valore non tanto economico quanto culturale in termini di “patrimonio”.

Ecco che un bene culturale sia esso un’opera d’arte o altro, di provenienza/appartenenza tutta all’italiana, per ciò solo è vincolato e non se ne potrà disporre liberamente (trasferire/ vendere), senza prima aver ricevuta un’autorizzazione ministeriale.

I beni culturali, infatti, costituiscono un “patrimonio storico e artistico nazionale” contribuendo, come scrivono bene i giudici amministrativi “all’arricchimento della cultura nazionale” ivi comprese “tutte quelle componenti attraverso le quali sia possibile, per i cittadini tutti, accrescere le proprie conoscenze e migliorare la propria formazione”.

La catalogazione e il requisito oggettivo

La controversia in parola ruota sostanzialmente tutta attorno al requisito informativo, o meglio alla necessità dell’informazione e quindi al diritto di accesso. Tuttavia, al riguardo, è lecito accedere alla sola catalogazione spuria di altri dati riconducibili a persone.

Di qui, il solo criterio oggettivo che può muovere un’istanza di accesso se la si vuole vedere accolta. Ma nulla di più. Anzi, la richiesta di accesso finalizzata a sapere a chi appartiene quell’opera piuttosto che un’altra non è consentito.

La tutela della riservatezza

Si legge in sentenza che il legislatore ha inteso garantire “un riserbo su alcune informazioni concernenti aspetti particolarmente delicati e sensibili, suscettibili di essere pregiudicati da una divulgazione del dato conoscitivo su scala generalizzata”, (tra cui i dati personali, ad esempio, nomi e cognomi dei titolari dei beni culturali) precludendo un incondizionato e “illimitato” accesso ai dati e documenti relativi ai beni culturali privati.

Il tutto al fine di bilanciare l’interesse del pubblico alla conoscenza con l’interesse opposto volto ad assicurare la “sicurezza” del bene e la “riservatezza” di chi lo possiede.

Il right to know e l’interesse pubblico e non del pubblico

Dall’istanza così come presentata dal giornalista ritengono i giudici del TAR Lazio che non traspaia affatto alcun “… interesse alla conoscenza – right to know” in generale dal momento che invece la richiesta ha un di che tutto in chiave personale nel senso che è tutta tracciata all’insegna di una soggettività palese.

In definitiva, la richiesta avanzata non intende perseguire l’interesse pubblico, ma la curiosità del pubblico ed è qui il cuore della sentenza.

Più nel dettaglio, leggiamo come “il giornalista ben avrebbe potuto formulare correttamente una richiesta su base oggettiva, ossia funzionale a conoscere: i) l’esistenza di un vincolo culturale su taluni di detti beni (con conseguente divieto di loro fuoriuscita dal territorio italiano), o, in alternativa, ii) l’avvenuto rilascio, da parte di una delle articolazioni organizzative del Ministero della cultura, di titoli all’esportazione in relazione a beni ritenuti non “meritevoli” di essere sottoposti ad un vincolo di tutela” piuttosto che una richiesta atta a conoscer l’elenco dettagliato, nome per nome, di tutte le opere a cui gli eredi della nota famiglia torinese appartengono. Né l’interesse mediatico può bastare per avere diritto di accedere e, quindi, conoscere dati informazioni sensibili.

Men che meno avrebbe potuto rilevare la cd “caratura pubblica” degli eredi/interessati coinvolti in questa vicenda. Anzi, e “l’eventuale notorietà del proprietario – scrivono i giudici – nulla aggiunge alla valutazione sul valore artistico delle opere possedute”.

Quindi, il passaggio saliente: “l’interesse pubblico […] è qualcosa di ben diverso dall’interesse del pubblico”.

Il “pregiudizio concreto” e la protezione dei dati personali

Il MIC, secondo il TAR, nella valutazione del concreto pregiudizio avrebbe effettuato un bilanciamento tra contrapposti interessi in gioco, ma non in maniera corretta. Spieghiamoci meglio.

Secondo i giudici amministrativi sarebbe extra focus il presupposto così invocato, dal momento che una preclusione alla conoscibilità non può dirsi assoluta ben potendo rientrare la titolarità dei beni culturali su cui garantire il massimo riserbo nonché pieno anonimato.

Né il diritto di cronaca può valere regolando “…il diritto alla libertà d’espressione e di informazione, incluso il trattamento a scopi giornalistici o di espressione accademica, artistica o letteraria” (art. 85 GDPR).

Ne consegue dunque che l’attività mediatica può fare accesso (civico generalizzato), ivi incluso l’accesso alle informazioni e ai dati detenuti da MIC, purché avvenga nella piena sicurezza dei beni e massima tutela della riservatezza,

Il dispositivo in brevissima sintesi

Il TAR, alla luce delle motivazioni finora argomentate, ha disposto quindi l’annullamento del provvedimento con cui il MIC accoglieva la richiesta di accesso civico generalizzato presentata, in questo caso, dal giornalista, statuendo dei criteri ben precisi e dipanando le questioni sottese alla controversia in parola.

Questa sentenza costituirà dunque un faro in analoghe vicende.

Beni culturali privati, sono dati anche “sensibili” e meritevoli di privacy

Tiriamo le fila.

I nodi sciolti

Un’opera d’arte di un privato è un dato “sensibile” lato sensu.

Accedere a dati/informazioni di questo tipo è possibile, ma solo la richiesta di accesso viene formulata in chiave oggettiva e soggettiva.

La distinzione tra dati personali e dati pubblici è ben delineata dal TAR che si sofferma segnatamente sulla nozione di interesse pubblico che non è l’interesse del pubblico. Un conto è l’interesse alla conoscenza, altro è la mera curiosità per fare audience.

L’oggettività richiesta all’istanza di accesso serve anche ad assicurare tanto la sicurezza dei beni culturali di patrimonio della nazione, quanto la tutela della riservatezza dei soggetti interessati e in questo caso proprietari dei beni medesimi.

Ancora, il riserbo che la legge impone su alcune informazioni concernenti aspetti particolarmente delicati e sensibili si sostanzia nel principio secondo cui tali dati sono “suscettibili di essere pregiudicati da una divulgazione su scala generalizzata e l’ubicazione della res”.

Di qui, è precluso un incondizionato e “illimitato” accesso ai dati/informazioni/documenti relativi ai beni culturali privati, in ottica di equilibrio, l’interesse del pubblico alla conoscenza con l’interesse opposto finalizzato ad assicurare da un lato la “sicurezza” del bene e, dall’altro la “riservatezza” di chi lo possiede.

In sostanza, se un’opera d’arte (dipinto o scultura) ha un vincolo culturale, ecco che chiunque potrà conoscere l’esistenza dell’opera come “bene culturale” e intrinseche caratteristiche, ma nessuno avrà il diritto di sapere a chi appartiene e dove si trovi.

La tecnica di “aggregazione e k-anonimato”

L’aggregazione e il k-anonimato sono tecniche volte a proteggere la privacy nei dati personali durante un processo di pubblicazione o condivisione di informazioni. Si tratta di approcci spesso utilizzati nell’ambito della ricerca scientifica o dataset (insieme di dati) pubblici, dove è necessario bilanciare tanto la necessità di condividere dati per legittimi scopi, quanto la tutela della privacy individuale.

TECNICHE

Aggregazione dei dati

L’aggregazione dei dati comporta la combinazione di dati individuali in gruppi più ampi, riducendo così il rischio di identificazione di singoli individui.

Ipotesi: anziché di pubblicare le informazioni sulla salute di ciascun individuo separatamente, si possono aggregare i dati per creare statistiche di gruppo, ad esempio la media o la mediana di determinate caratteristiche.

k-anonimato

Il k-anonimato è un concetto che mira a garantire che ogni record nei dati sia indistinguibile da almeno altri k-1 record rispetto a determinati attributi.

Ipotesi: Se si applica il 3-anonimato a un dataset che contiene informazioni sensibili come l’età, il genere e la località, significa che ogni combinazione di età, genere e località deve comparire almeno tre volte nel dataset.

I limiti di queste tecniche tuttavia principalmente sono:

  1. una possibile perdita di informazioni: l’aggregazione può comportare la perdita di dettagli nei dati, riducendo la loro precisione e utilità;
  2. ipotetiche sfide nell’applicazione del k-anonimato: ottenere il k-anonimato può essere difficile, specialmente quando si lavora con dataset complessi e ricchi di attributi, poiché è necessario bilanciare la protezione della privacy con la validità scientifica e l’utilità del dataset.

Naturalmente, si tratta di approcci che rappresentano solo una parte delle tante tecniche disponibili. La scelta della tecnicalità più appropriata dipenderà dalle specifiche esigenze e soprattutto dai contesti applicativi.

Conclusioni

La decisione del TAR Lazio in conclusione farà scuola in materia di accesso in quanto compie un’approfondita ricognizione sull’istituto dell’accesso civico cogliendo magistralmente le interferenze tra sicurezza dei beni a garanzia del patrimonio culturale a vantaggio della collettività e la tutela della riservatezza a favore dei singoli.

Quindi, in tutti questi casi, specialmente mediatici, molta attenzione alla privacy.

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