SENTENZA DI CASSAZIONE

Trattamento dei dati da parte dell’avvocato che dismette il mandato: che c’è da sapere

Una sentenza di Cassazione afferma che l’avvocato che rinuncia al mandato è comunque tenuto ad informare la parte assistita. Tuttavia questo crea un paradosso, in quanto la revoca o la rinuncia determina l’impossibilità per l’avvocato titolare del trattamento dei dati a continuare a trattare quelli personali del cliente. Facciamo chiarezza

Pubblicato il 28 Feb 2019

Mauro Buontempi

Avvocato Senior Studio Legale Baldoni & Buontempi, Vice Presidente Associazione Europea Protezione Dati, Formatore DPO, Privacy

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Come deve trattare i dati del cliente un avvocato che dismette il mandato o vi rinuncia? La questione è stata affrontata dalla sentenza n. 2755 della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite in data 30 gennaio 2019 (emessa in data 4 dicembre 2018, Presidente Angelo Spirito; Relatore Antonio Oricchio) che, tuttavia, non solo non ha contribuito a fornire chiarimenti in ordine alla condotta che l’avvocato deve adottare in tali casi (in assenza di un nuovo difensore), ma anzi ha generato un contrasto normativo tra le regole deontologiche per gli avvocati in materia di trattamento dei dati personali e quelle del codice di deontologia.

Revoca e rinuncia al mandato: il principio della sentenza

La Suprema Corte ha infatti affermato il principio per cui l’avvocato che rinuncia al mandato è comunque tenuto ad informare la parte assistita finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore al fine di non pregiudicare la difesa del proprio cliente. Gli Ermellini hanno inoltre sostenuto che tale obbligo, in capo al professionista, si estende anche alle possibili comunicazioni o notificazioni inerenti il precedente incarico.

La Suprema Corte ha sostanzialmente equiparato i due istituti, della revoca e della rinuncia al mandato, affermando che il dovere di informazione è dovuto “intanto indipendentemente dall’accertamento della sussistenza, in concreto, di una ipotesi di rinuncia ovvero di revoca del mandato conferito”.

I Giudici hanno poi affermato che “al riguardo non può che condividersi l’orientamento secondo cui pur se l’art. 47 (ora 32) del codice deontologico disciplina la sola fattispecie della rinuncia al mandato, tuttavia la fattispecie, seppur diversa, della revoca deve ritenersi fonte dei medesimi obblighi di comunicazione da parte del professionista”. Secondo le Sezioni Unite “anche la revoca del mandato costituisce, al pari della rinuncia, una analoga soluzione di continuità nell’assistenza tecnica e, quindi, deve ritenersi sottoposta ad identiche ragioni di tutela in favore della parte assistita con conseguente sussistenza in capo al difensore, ancorché revocato, dei medesimi obblighi informativi necessari al fine di non pregiudicare la difesa dell’assistito.

La vicenda oggetto del giudicato

La vicenda in questione riguarda le sorti di una professionista che aveva impugnato un provvedimento di avvertimento irrogato dal proprio Consiglio dell’Ordine di appartenenza, poi confermato anche dal Consiglio Nazionale Forense, in quanto la stessa avrebbe rinunciato al mandato conferitole e avrebbe taciuto la data di rinvio della causa, ancora pendente al momento della rinuncia, al proprio cliente impedendo a quest’ultimo di procedere all’eventuale nomina di un nuovo difensore anche al fine di garantire la piena tutela dei propri diritti senza soluzione di continuità. Da qui la sanzione disciplinare dell’avvertimento.

L’articolo 32 del Codice di deontologia forense

Secondo la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite rinuncia e revoca del mandato sono due fattispecie entrambe riconducibili alle statuizioni dell’art. 32 del codice di deontologia forense (Rinuncia al mandato) il quale espressamente statuisce che:

  1. L’avvocato ha la facoltà di recedere dal mandato, con le cautele necessarie per evitare pregiudizi alla parte assistita.
  2. In caso di rinuncia al mandato l’avvocato deve dare alla parte assistita un congruo preavviso e deve informarla di quanto necessario per non pregiudicarne la difesa.
  3. In ipotesi di irreperibilità della parte assistita, l’avvocato deve comunicare alla stessa la rinuncia al mandato con lettera raccomandata all’indirizzo anagrafico o all’ultimo domicilio conosciuto o a mezzo PEC; con l’adempimento di tale formalità, fermi restando gli obblighi di legge, l’avvocato è esonerato da ogni altra attività, indipendentemente dall’effettiva ricezione della rinuncia.
  4. L’avvocato, dopo la rinuncia al mandato, nel rispetto degli obblighi di legge, non è responsabile per la mancata successiva assistenza, qualora non sia nominato in tempi ragionevoli altro difensore.
  5. L’avvocato deve comunque informare la parte assistita delle comunicazioni e notificazioni che dovessero pervenirgli.
  6. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.

In ossequio a tale disposto la Cassazione ha ampliato la portata di tale articolo estendendone gli effetti anche al caso di revoca del mandato. Ricapitolando, quindi, secondo la sentenza n. 2755 l’avvocato che rinuncia al mandato, o che viene revocato, deve dare alla parte assistita un congruo preavviso (ovviamente in caso di rinuncia) informandola di quanto necessario per non pregiudicarne la difesa, deve comunicare al cliente la rinuncia al mandato con lettera raccomandata o a mezzo pec e deve comunque informare la parte assistita delle comunicazioni e notificazioni che dovessero pervenirgli.

Il trattamento dei dati nelle indagini difensive 

In data 15 gennaio 2019 sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 12 Le regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per fare valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. I primi 7 articoli, degli 11 totali, interessano direttamente gli avvocati. Questi ultimi sono chiamati ad applicare tali dettati normativi che rilevano sia sotto il profilo deontologico che sotto quello dell’adeguamento al GDPR.

L’art. 2-quater del D.lgs. 196/2003 al comma 4 prevede espressamente che il rispetto delle disposizioni contenute nelle regole deontologiche costituisce condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali. Chi viola tali regole commette quindi sia un illecito disciplinare che una violazione del GDPR con la possibilità di incappare nella grave conseguenza della inutilizzabilità dei dati personali trattati.

L’articolo 4 delle regole deontologiche

Nell’ambito delle suddette regole deontologiche relative al trattamento dei dati personali non va mai dimenticato il principio per cui quando la finalità del trattamento viene meno di conseguenza il titolare del trattamento non può più effettuare alcun trattamento dei dati dell’interessato. In caso di revoca o rinuncia al mandato, quindi, l’avvocato non può più trattare i dati personali del proprio cliente, ferma la possibilità prevista dall’art. 4 delle regole deontologiche di conservazione e/o cancellazione dei dati nelle forme, nei modi e nei tempi in esso indicati.

Secondo il richiamato art. 4, quindi, l’avvocato che rinuncia al mandato o viene revocato deve rimettere la documentazione acquisita, se del caso in originale ove detenuta in tale forma, al difensore che subentra formalmente nella difesa. Ma cosa succede se il cliente non nomina un nuovo difensore? In questo caso l’art. 4 comma 4 statuisce che la documentazione dei fascicoli degli affari trattati, decorso un congruo termine dalla comunicazione all’assistito, è consegnata al Consiglio dell’Ordine di appartenenza ai fini della conservazione per finalità difensive.

Tale modalità operativa è la logica conseguenza del fatto che, venuta meno la finalità del trattamento per sopravvenuta rinuncia o revoca del mandato, il titolare del trattamento è impossibilitato a trattare i dati del proprio cliente e, conseguentemente, deve restituire tutta la documentazione degli affari trattati al medesimo cliente o, nell’inerzia di quest’ultimo, al proprio Ordine di appartenenza, spogliandosi così dei dati personali del proprio assistito (ferma la possibilità di detenere in copia alcuni dati personali per le finalità espresse nelle regole deontologiche sul trattamento dei dati personali alla cui lettura integrale si rimanda).

L’impossibilità a trattare i dati del proprio cliente si estende evidentemente anche ai casi di ricezione di possibili comunicazioni o notificazioni, inerenti il precedente incarico, ricevute successivamente alla rinuncia o alla revoca del mandato.

Un cortocircuito normativo

La Sentenza n. 2755 del 30 gennaio 2019 genera, suo malgrado, una sorta di “cortocircuito normativo” tra l’art. 4 comma 4 delle regole deontologiche in materia di trattamento dei dati personali e l’art. 32 del codice di deontologia forense.

Cosa succede infatti se l’interessato ha eletto domicilio presso la persona e/o lo studio dell’avvocato titolare del trattamento in ipotesi di revoca o rinuncia al mandato ed in assenza di un nuovo difensore? Se da un lato la revoca o la rinuncia determina l’impossibilità per l’avvocato titolare del trattamento di continuare il trattamento dei dati personali del cliente, e quindi l’impossibilità di ricevere le eventuali comunicazioni o notifiche successive, dall’altro la Suprema Corte di Cassazione afferma l’obbligatorietà dell’applicazione dell’art. 32 del codice deontologico forense che, al comma 5, statuisce che “l’avvocato deve comunque informare la parte assistita delle comunicazioni e notificazioni che dovessero pervenirgli.

Rammentiamo che il mancato rispetto dell’art. 32 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.

Si comprende bene come la decisione della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite pone inesorabilmente l’avvocato dinanzi ad un bivio: scegliere tra l’illiceità del trattamento dei dati personali a seguito della revoca o della rinuncia al mandato (sempre in ipotesi di assenza di nuovo difensore) con conseguente violazione dell’art. 4 comma 4 delle regole deontologiche sul trattamento dei dati personali, oppure optare per la violazione dell’art. 32 comma 5 del codice deontologico forense. In entrambi i casi l’avvocato sarà passibile di sanzione disciplinare.

Appare assolutamente necessario, al riguardo, un intervento da parte del Garante per la protezione dei dati personali teso a fornire una interpretazione autentica delle norme sopra richiamate al fine di superare questo contrasto normativo tra l’art. 4 comma 4 delle regole deontologiche in materia di trattamento dei dati personali e l’art. 32 comma 5 del codice deontologico forense.

In particolar modo si auspicano anche chiarimenti in ordine alla condotta che l’Ordine territorialmente competente dovrà adottare dal momento in cui entrerà in possesso della documentazione dei fascicoli degli affari trattati consegnati dal difensore revocato o rinunciatario; da quel momento il Consiglio dell’Ordine diverrà titolare del trattamento con tutte le relative conseguenze previste dalla norma europea e nazionale.

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