L’ordinanza della Corte di Cassazione numero 7559 del 2020, consente di approfondire quali siano i parametri entro i quali sia legittimo limitare il diritto di cronaca, il diritto alla libera informazione in rapporto al cosiddetto diritto alla cancellazione o, meglio detto, al diritto all’oblio.
Detto quesito riflette, peraltro, le inevitabili ripercussioni derivate dalla digitalizzazione dell’informazione, estendendo di fatto la portata della questione fino ad involgere l’opportunità o meno di vietare la rievocabilità di fatti o notizie pubblicate nel passato anche non proprio prossimo.
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Il diritto all’oblio
Il corposo iter motivazionale fornito dagli Ermellini integra un attento excursus intriso di definizioni, letture interpretative, analisi di precedenti giurisdizionali interni ed europei, tracce applicative delle coordinate giurisprudenziali suggerite, che, per motivi di brevità, non potranno essere approfondite se non incidenter nella odierna riflessione, nel tentativo ben più pregnante di esaminare l’approdo dei Giudici di legittimità anche nell’ottica del GDPR.
Tanto in quanto la Suprema Corte ha dovuto far riferimento ratione temporis alla disciplina del Codice della privacy (d.lgs. 196/2003) ed alla direttiva europea 95/46, tenuto sempre conto della inderogabile cornice costituzionale, sebbene non abbia tardato dal menzionare le attuali disposizioni del Reg. UE 2016/679 vigenti in materia.
In primo luogo, è opportuno soffermarsi sul significato da ricondurre al cd. diritto all’oblio. Con tale dizione, si suole intendere il diritto di ciascun interessato ad essere dimenticato, ovvero a non essere più ricordato per taluni fatti che in passato lo hanno coinvolto e che sono stati riportati dalle cronache locali o nazionali.
La ratio sottesa si annida nella circostanza che il diritto della collettività ad essere informata sussiste solo in un certo limitato arco temporale, diminuendo progressivamente fino a scomparire con il trascorrere del tempo.
È di immediata percezione come il diritto all’oblio si declini in concreto in tre profili sostanziali: il diritto ad ottenere la cancellazione dei propri dati; il diritto ad evitare la ripubblicazione di fatti antecedenti, in passato legittimamente oggetto di diffusione; il diritto a limitare l’istantaneo accesso, mediante la rete internet, a notizie afferenti con eventi avvenuti molto tempo addietro.
Il caso in esame
L’esame nel dettaglio dei passaggi motivazionali addotti dalla Cassazione presuppone un’adeguata conoscenza del dato fattuale in esame. In particolare, trattasi del ricorso presentato, innanzi ai giudici di legittimità, dall’erede di un defunto illustre imprenditore del ramo tipografico, avverso la sentenza del Tribunale di Milano del 2014, che aveva dichiarato cessata la materia del contendere in ordine all’originaria impugnazione del provvedimento del Garante della Privacy n. 196/2011; con quest’ultimo provvedimento, l’organo amministrativo aveva rigettato la richiesta (presentata dall’erede) volta alla cancellazione del nome del defunto dagli articoli di stampa aventi ad oggetto il procedimento penale in cui era stato imputato ed alla deindicizzazione degli stessi articoli.
Nello specifico, il Garante della Privacy aveva ritenuto infondate le richieste di cancellazione dei dati personali e di aggiornamento degli articoli di stampa in relazione agli esiti del lungo procedimento penale, nonché di esclusione della facile reperibilità sul web di tali documenti; in sede di impugnazione presso il Tribunale, il ricorrente, rinunciato alla domanda di cancellazione dei dati personali, aveva reiterato la richiesta di cancellazione, seppur a fronte della avvenuta deindicizzazione del vecchio articolo e dell’aggiornamento sull’esito del processo, e, in subordine, aveva comunque chiesto che la fruizione delle notizie fosse limitata ai soli utenti collegati all’archivio della pagina on line del quotidiano. A causa del rigetto della domanda, la parte istante ha inteso adire la Suprema Corte.
Il rapporto tra diritto all’oblio e libertà di informazione
Il diritto all’oblio, inizialmente inteso nell’accezione preponderante di diritto alla riservatezza, ha ricevuto un primo riconoscimento con la sentenza della Suprema Corte n. 3679/1998, in virtù del principio secondo il quale è interesse di ciascun cittadino evitare la possibilità di essere esposto a tempo indeterminato alla riproposizione di una notizia in passato divulgata, con conseguenti danni ulteriori alla propria immagine ed al proprio onore, salva la sopravvenienza di nuovi fatti idonei a far tornare d’attualità il caso.
L’indirizzo così tracciato ha trovato espressione nel Codice della Privacy del 2003, a mezzo degli artt. 7 comma 3 lett. b e 11 comma 1 lett. e, ove il legislatore ha introdotto rispettivamente il diritto alla cancellazione, alla trasformazione in forma anonima o al blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli per i quali difettano i presupposti idonei a giustificarne la conservazione (art. 7 c. 3 lett. b) ed il diritto alla conservazione dei dati personali per il periodo di tempo esattamente proporzionato agli scopi per i quali sono stati raccolti e trattati (art. 11 c. 1 lett. e).
Le disposizioni così articolate hanno certamente dato una chiara attuazione alle generali statuizioni contenute nella direttiva europea n. 96/45, allorché l’art. 9 ha riconosciuto, relativamente ai dati raccolti a causa di finalità giornalistiche, letterarie e di espressione artistiche, la possibilità di invocare una deroga ai principi generali vigenti in materia di trattamento, in nome di un equo contemperamento del diritto alla vita privata con quello alla libertà di espressione; poi, l’art. 12 lett. b ha garantito il diritto di ogni interessato ad ottenere la rettifica e la cancellazione di dati aventi carattere incompleto e/o inesatto.
Ciò posto, lo scenario finora definito ha subito un notevole mutamento con lo sviluppo della tecnologia e la massima diffusione della rete internet: se infatti le minacce erano in precedenza ristrette unicamente al pericolo di ripubblicazione di una notizia sgradevole e non più attuale, oggi il web permette di avere accesso immediato e costante a qualunque tipo di informazione, senza limiti di tempo; non sussiste, dunque, il rischio di subire la riproposizione di una notizia ormai dispersa in fondo alla memoria, atteso che essa potenzialmente non è mai fuoriuscita dal radar di ogni utente dotato di una connessione internet e di un computer.
Naturale corollario dell’evoluzione tecnologica è la opportunità di regolamentare il diritto alla libera accessibilità delle notizie, ormai immediatamente disponibili anche mediante un semplice clic su un social network o su un comune motore di ricerca; il tutto sempre al fine di tutelare, oltre al diritto alla riservatezza, anche il diritto alla protezione della sfera intima di ciascun interessato, esposta alle intrusioni esterne sottoforma di divulgazione smisurata e potenzialmente incontrollata.
Il complesso quadro di interessi in gioco è stato oggetto di plurime pronunce della Corte di Giustizia europea, dalle quali è possibile evincere spunti di riflessione non trascurabili. A titolo esemplificativo, nella sentenza del 13.05.2014, C 131/12 Google Spain, viene valorizzata la preminenza del diritto alla tutela della sfera personale di ogni individuo, ad eccezione dell’ipotesi in cui sia ravvisabile un superiore interesse collettivo ad ottenere le informazioni sul privato (per esempio, a causa del ruolo pubblico di quest’ultimo).
Significativa appare la pronuncia licenziata dalla Corte EDU del 19.10.2017, in quanto la Corte ha chiarito con maggiore dovizia di particolari il concetto di interesse pubblico, in presenza del quale è legittimo derogare al diritto all’oblio dell’interessato; in altre parole, l’articolo di stampa deve essere ritenuto utile al dibattito pubblico, ciò importando la necessità di indagare i seguenti requisiti: l’elevato grado di notorietà dell’interessato; il contenuto vero o comunque verosimile della pubblicazione, scevra di insinuazioni e/o considerazioni personali; la preventiva comunicazione all’interessato, tale da garantirne l’esercizio del diritto di replica prima della divulgazione.
Ben più chiara è stata la Corte EDU con la pronuncia del 28.06.2018, allorquando ha escluso la tutela del diritto all’oblio a fronte di gravi fatti di cronaca giudiziaria.
Invero, i giudici EDU hanno ritenuto che il diritto alla vita privata ed alla reputazione, che potrebbero essere minati da un’indiscriminata fruizione di dati personali anche sul web, abdicano nel caso di illecito penale, sull’assunto che il danno alla reputazione sia prevedibile e, indi, evitabile dall’interessato adottando una condotta conforme alle disposizioni di legge.
Con la pronuncia del 4 dicembre 2018, la Corte EDU sembra aver corretto leggermente il tiro, assumendo una posizione più conservativa nell’ambito della parametrazione dei diritti da tutelare, sulla scorta del ruolo sempre maggiore di internet; nello specifico, la libera ed incondizionata fruibilità delle notizie in rete ha indotto la Corte ad attribuire valore primario al diritto alla vita privata, su cui non prevale il diritto di cronaca.
Cosa dice la legge in Italia
Nel solco tracciato dai precedenti delle Corti europee, si inserisce, anche se con lievi scostamenti, la giurisprudenza nazionale. A tal uopo, la Suprema Corte ha dato centralità al concetto di interesse pubblico effettivo ed attuale, in presenza del quale è corretto diffondere pregresse notizie, a patto che le stesse siano in diretta correlazione con nuovi sviluppi di più stretta attualità (cfr. Cass. 16111/2013).
La diretta conseguenza di tale approdo è ritenere che l’editore sia tenuto ad eliminare dall’archivio on line del proprio quotidiano notizie remote se difetti l’interesse concreto ed attuale della collettività ad averne conoscenza (vedasi Cass. 13161/2016).
Nondimeno pregiata è la sentenza emessa dalle Sezioni Unite nel 2019, n. 19681, allorquando i Giudici hanno confermato la necessità preminente di indagare la sussistenza di un interesse attuale e non potenziale della opinione pubblica a conoscere i protagonisti di precedenti eventi pubblicati, che si sostanzia nella verifica della notorietà dell’interessato e della sua partecipazione alla vita pubblica.
Purtuttavia, tale precedente non può dirsi esaustiva a risolvere la questione interpretativa, atteso che involge una ben delimitata fattispecie ovvero la legittimità o meno di ripubblicare delle notizie avvenute parecchio tempo addietro, senza pronunciarsi in ordine agli altri due profili di cui si compone il diritto all’oblio (diritto alla deindicizzazione sui motori di ricerca del web e diritto alla cancellazione dei dati personali).
Il rapporto su cui indugiare più diffusamente è quello da instaurare tra le necessità di comunicazione continua ed illimitata dei nuovi media on line ed il diritto alla riservatezza ed alla tutela della sfera personale del cittadino, soprattutto se dotato di un ruolo pubblico, in conformità ai principi di proporzionalità, necessità, pertinenza e veridicità.
La decisione della Cassazione
La Suprema Corte, pur avallando un indirizzo pressoché in linea con la giurisprudenza comunitaria e nazionale finora passata in rassegna, si è lievemente discostata, a mio parere dalle coordinate interpretative nell’ottica di garantire un maggiore bilanciamento dei diritti in gioco, tutti di pari livello.
Nello specifico, ha in primis condiviso la deindicizzazione degli articoli antecedenti dai comuni motori di ricerca, così impedendo che il dato rientri nella disponibilità di chicchessia per motivi di casualità o di futile natura.
Tale indirizzo non equivale a sostenere che le notizie debbano essere del tutto cancellate, poiché possono essere comunque disponibili, se sussiste un rilevante interesse alla loro fruizione, nell’ambito dell’archivio interno alla pagina on line del quotidiano di appartenenza; ciò non appare in controtendenza con il riconoscimento del diritto all’oblio, bensì un compromesso tra il diritto a non essere esposti ininterrottamente alla rievocazione di eventi pregressi ed il diritto della collettività di conoscenza ed informazione, a patto che sia compiutamente aggiornata ed adeguata.
Il detto punto di bilanciamento poggia, infatti, sull’assunto che un sacrificio cieco del diritto di cronaca importerebbe l’estrema ed ingiustificata conseguenza di accettare che le notizie si fermino al momento del trapasso dell’interessato, da ritenere in tal senso lo spartiacque sufficiente a determinare ex se la cancellazione dei dati e la presunta cessazione di qualsivoglia interesse collettivo a quegli stessi dati.
Sulla scorta di tali principi, la Suprema Corte ha ritenuto nel caso de quo di condividere la pronuncia impugnata, atteso che la permanenza nell’archivio informatico del quotidiano delle informazioni sul defunto azionista di riferimento del primario gruppo imprenditoriale italiano in ambito grafico è conforme alla necessità di garantire un minimo di diritto della collettività a conoscere gli eventi di rilievo penale che lo hanno coinvolto; per coloro i quali operino nel settore economico e, in particolare, se a capo di un noto gruppo imprenditoriale, infatti, i dati si connotano in termini di maggiore resilienza all’azione di compressione esercitabile a tutela della precedente governance.
Per quanto concerne, poi, la richiesta di aggiornamento della cronaca all’esito del procedimento penale, gli Ermellini non hanno rinvenuto i presupposti per censurare l’operato dell’editore il quale non ne aveva pubblicato il proscioglimento, in quanto il defunto imprenditore non era stato completamente prosciolto in sede di udienza preliminare, ottenendo su taluni capi di imputazione una pronuncia di non doversi procedere rispettivamente per difetto di querela e per intervenuta prescrizione e su talaltri una pronuncia di assoluzione nel merito.
Premesso quanto innanzi, il convincimento così espresso, a parere dello scrivente, riflette l’effetto dell’entrata in vigore del GDPR, oltre a condividere gli orientamenti già chiariti nel paragrafo antecedente.
Infatti, se è vero che l’art. 17 prescrive nitidamente al parag. 1 il diritto alla cancellazione dei dati in assenza di una legittima finalità che ne giustifichi il trattamento, è altrettanto vero che al parag. 3 lett. d) la detta disposizione consente una deroga, tra l’altro, nelle ipotesi riconducibili ai “fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici… nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento”; viepiù, detta deroga si appalesa come una specificazione del più generale principio sancito all’art. 9 parag. 2 lett. j) allorchè viene consentito il trattamento dei dati “particolari” se “necessario ai fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici… che è proporzionato alla finalità perseguita, rispetta l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato”.
In senso conforme, depone altresì la lettura sistematica del considerando 65, ove da un lato è configurato il diritto dell’interessato alla rettifica e/o alla cancellazione dei dati personali qualora non ricorrano più le finalità ab origine alla base della loro raccolta e diffusione, dall’altro lato mitigato dalla dirimente precisazione secondo cui, tuttavia, sarebbe lecita l’ulteriore conservazione “per esercitare il diritto alla libertà di espressione e di informazione” ovvero “ai fini di archiviazione nel pubblico interesse”.
Conclusione
Alla luce della lettura combinata dei principi normativi e giurisprudenziali, è possibile concludere che il diritto all’oblio, nelle forme in cui si manifesta, costituisce un diritto primario, da tutelare secondo un adeguato bilanciamento con gli ulteriori diritti costituzionalmente garantiti, tra i quali rientra a pieno il diritto alla libera informazione.
È, pertanto, imprescindibile una puntuale valutazione del caso concreto, idonea a disvelare la tipologia dei dati, la entità delle informazioni, la ricorrenza di talune specificità, la sussistenza dei presupposti fondamentali e l’adempimento delle forme richieste, da interpretare sempre in funzione dei parametri di proporzionalità, necessità, effettività e legittimità, affinchè si eviti il rischio di svilire o di ridimensionare oltremisura uno dei diritti in campo.