La decisione di Apple di rimuovere le app di incontri gay Blued e Finka dallo store cinese apre un nuovo capitolo nel rapporto tra diritti digitali, censura di Stato e potere delle big tech.
Il caso non è isolato in quanto si inserisce in una lunga sequenza di interventi del governo cinese contro la visibilità online della comunità LGBTQ+, sostenuti da una cornice politico-ideologica che unisce pronatalismo, moralismo tradizionale e controllo sociale.
Dietro la facciata della “conformità legale”, il comportamento di Apple solleva una domanda cruciale: fino a che punto un’azienda globale può o deve adattarsi alle regole di un regime autoritario?
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Apple e la censura in Cina: cosa è successo
Secondo quanto riportato da Wired, le due app di dating gay più popolari in Cina, Blued e Finka, sono scomparse dall’App Store nel fine settimana precedente al 10 novembre, in seguito a un ordine diretto della Cyberspace Administration of China (CAC), l’autorità centrale responsabile della censura e della supervisione di Internet nel Paese.
La testata spiega che le autorità hanno motivato la richiesta con ragioni di “sicurezza nazionale” e con presunte violazioni delle regole sulle pubblicazioni online, una formula già impiegata in passato per giustificare la rimozione di contenuti o piattaforme considerate sensibili.
Apple, da parte sua, contattata da Wired, ha confermato di aver eseguito la rimozione, dichiarando in una nota via email che la società non ha fatto altro che seguire le leggi dei Paesi in cui opera e che, in base a un ordine della Cyberspace Administration of China, ha pertanto rimosso le due app solo dallo store cinese.
La compagnia ha, inoltre, precisato che le applicazioni restano accessibili agli utenti che le avevano già scaricate, ma non potranno più essere installate da nuovi utenti: una forma di censura soft, che riduce la visibilità e limita l’accesso senza imporre un divieto esplicito.
La rimozione di Blued e Finkasegna un ulteriore passo indietro per la comunità LGBTQ+ in Cina, già colpita negli ultimi anni da chiusure di ONG, soppressione di account social e cancellazione di eventi pubblici.
Per comprendere la portata di questa mossa, occorre guardare oltre la singola notizia e inserirla nel contesto più ampio della progressiva scomparsa degli spazi digitali e sociali queer nel Paese, dove le politiche di controllo statale si intrecciano con le dinamiche commerciali delle piattaforme tecnologiche occidentali.
La lunga ombra della censura: i precedenti
La stretta attuale è sola l’ultima in ordine di tempo. Da qualche anno, infatti, Pechino ha intensificato una campagna sistematica per ridurre la presenza e la visibilità delle identità queer negli spazi pubblici digitali.
Nel luglio 2021, la piattaforma WeChat (Tencent) ha cancellato decine di account pubblici LGBTQ+ universitari, molti dei quali gestiti da gruppi studenteschi.
Le notifiche parlavano vagamente di “violazioni delle leggi di Internet”, ma gli osservatori hanno notato che gli account servivano come forum sicuri di discussione, educazione sessuale e supporto psicologico.
Nello stesso periodo, la piattaforma gemella QQ ha bloccato termini di ricerca come “gay”, “lesbian” e “LGBTQ” per i gruppi pubblici, sotto l’etichetta “informazioni dannose”.
Anche Weibo, uno dei più grandi social cinesi simile a X/Twitter, ha censurato periodicamente contenuti legati alla comunità queer. Account storici come “Voice of Comrade” (una delle voci più visibili della comunità queer online in Cina, con contenuti di sensibilizzazione, storie personali, cultura, e collegamento con altre reti queer) sono stati costretti a cambiare nome o a chiudere, mentre post contenenti emoji o bandiere arcobaleno vengono regolarmente rimossi.
La censura non è episodica: è algoritmica e preventiva, inserita nei filtri di piattaforma.
Le motivazioni addotte per la rimozione delle app LGBTQ+ (“sicurezza nazionale” e “violazione delle norme sulle pubblicazioni online”) rientrano nella stessa logica giuridica utilizzata in altri casi simili.
Negli ultimi anni, la Cyberspace Administration of China (CAC) ha invocato le medesime ragioni per chiedere la rimozione di altre app e servizi web considerati “sensibili”: le VPN (2017), bandite perché permettevano di aggirare il Great Firewall; l’app del New York Times, eliminata quello stesso anno per “contenuti non autorizzati”; e più recentemente WhatsApp e Threads (aprile 2024), oscurate dall’App Store cinese per motivi di “sicurezza nazionale”.
Oltre la rete: ONG chiuse e Pride cancellati
La pressione si estende naturalmente anche al mondo reale.
Dal 2020, numerose ONG LGBTQ+ (tra cui il Beijing LGBT Center) hanno annunciato la chiusura o la sospensione delle attività, citando “motivi di forza maggiore”.
Dietro questa formula si nascondono controlli amministrativi, revoche di registrazioni e visite della polizia.
L’evento Shanghai Pride, parata simbolo della comunità LGBTQ+ e per anni uno dei più visibili in Asia, è stato cancellato nel 2020 e gli organizzatori si sono trovati a dover sospendere a tempo indefinito tutte le attività. In seguito alla sospensione dello Shanghai Pride nel 2020, le autorità locali hanno esteso le restrizioni anche ad altri eventi analoghi: in città come Shenzhen, Guangzhou e Shenyang, celebrazioni e raduni per il Pride sono stati annullati o dispersi dalle forze di sicurezza, a conferma del progressivo restringimento dello spazio pubblico per la comunità LGBTQ+.
Il risultato è un vuoto sociale in cui la comunità LGBTQ+ cinese è spinta ai margini e costretta a spostare le proprie interazioni dagli spazi fisici a spazi digitali monitorati, dove la visibilità è tollerata solo entro limiti imposti dal controllo statale.
La costruzione normativa della censura
Il quadro legale che consente oggi la rimozione di contenuti LGBTQ+ risale al 2016, quando la State Administration of Press, Publication, Radio, Film and Television (SAPPRFT), insieme al Ministero dell’Industria e dell’Information Technology (MIIT), emanò le Provisions on Network Publication Services Administration. Queste norme stabilivano un sistema di autorizzazione per le pubblicazioni online e rafforzavano il controllo statale sui contenuti audiovisivi diffusi in rete.
L’anno successivo, nel giugno 2017, la China Netcasting Services Association (CNSA), sotto la supervisione della SAPPRFT, pubblicò delle nuove linee guida sui contenuti pubblicati online che vietavano la diffusione di “comportamenti sessuali anormali”, come l’omosessualità, l’incesto o la perversione sessuale e obbligavano le piattaforme a promuovere i valori socialisti e prevenire contenuti in grado di “distorcere” la morale sessuale.
Queste linee guida, ufficialmente concepite per mantenere la “purezza” morale e ideologica dei media online, hanno costituito la base regolatoria della censura digitale nei confronti delle rappresentazioni queer in film, serie e piattaforme video, e sono tuttora richiamate come riferimento giuridico nei casi di rimozione di contenuti LGBTQ+.
Da allora, film, serie TV, cortometraggi e live streaming che contengono personaggi o trame queer vengono regolarmente censurati.
Un caso emblematico è quello della serie Addiction, una web fiction di successo sul rapporto tra due adolescenti maschi, rimossa integralmente dalle piattaforme pochi giorni prima del finale di stagione.
Sempre di recente, un film horror con una coppia gay protagonista è statomodificato con l’intelligenza artificiale per trasformare i due personaggi in eterosessuali, su richiesta delle autorità cinesi. L’episodio, rapidamente diffuso sui social internazionali, è stato letto come un ulteriore segnale della volontà di cancellare ogni rappresentazione queer dai prodotti culturali mainstream.
Apple e il dilemma del potere globale
Apple si trova al centro di una tensione insolubile: tra conformità legale e responsabilità etica. Da un lato, la compagnia di Cupertino sostiene di rispettare le leggi dei Paesi in cui opera. Dall’altro lato, è noto che Apple costruisce la sua immagine pubblica sull’idea di diritti, privacy e libertà individuale: valori che in Cina vengono però “sospesi” per non compromettere l’accesso a un mercato strategico.
Secondo dati resi noti da Statista, la regione Greater China rappresenterebbe quasi il 20 % del fatturato globale di Apple. Inoltre, secondo un’analisi dell’American Enterprise Institute, gran parte dell’assemblaggio e dell’approvvigionamento dei componenti dei prodotti Apple avviene ancora in territorio cinese. Il Paese è infatti la principale base produttiva di giganti come Foxconn, Luxshare e Pegatron, nonché un nodo cruciale dell’intero ecosistema industriale su cui si regge la manifattura di iPhone, iPad e Mac.
Per queste ragioni un conflitto aperto con Pechino non sarebbe sostenibile. In pratica, Apple si troverebbe costretta a fungere da esecutore tecnico della censura cinese, trasformando una scelta politica in una decisione aziendale.
Le critiche internazionali: doppio standard e complicità
Organizzazioni come Amnesty International e The Citizen Lab accusano Apple di applicare un “doppio standard”: difende la privacy e la libertà di espressione in Occidente, ma accetta la censura in Cina. In particolare, la rimozione di app LGBTQ+ viene vista come una forma di collaborazione passiva alla repressione.
Secondo alcuni analisti citati da fonti dell’ecosistema tech, Apple eserciterebbe un controllo molto ampio sui propri fornitori, al punto da poter trasferire tecnologie o commesse da un’azienda all’altra, segno del forte potere contrattuale che deriva dalle sue dimensioni e dal peso economico della supply chain. Per questo, potrebbe, ad esempio, richiedere ordini formali scritti prima di rimuovere app, o promuovere trasparenza sui contenuti bloccati.
Invece, la scelta è di silenzio operativo, che evita lo scontro politico ma amplifica la responsabilità morale.
Le radici della repressione: ideologia, controllo e demografia
Per capire la strategia del governo cinese, bisogna guardare al progetto ideologico promosso da Xi Jinping e articolato su più fronti.
Famiglia e natalità
La Cina affronta una crisi demografica senza precedenti: il tasso di fertilità è sceso a 1,0 figli per donna e la popolazione risulta in calo dal 2022.
Il governo ha reagito con politiche di incentivo al matrimonio eterosessuale, alla maternità e alla “stabilità familiare”, introducendo agevolazioni come detrazioni fiscali, incentivi alla casa, copertura per trattamenti di fertilità per promuovere la formazione di famiglie con figli ed offrendo incentivi locali per seconde e terze nascite.
In questa narrativa, la comunità LGBTQ+ viene implicitamente percepita come contraria agli obiettivi di natalità e dunque come un’anomalia da correggere.
Stabilità e controllo sociale
La priorità del Partito è la stabilità. Qualsiasi gruppo organizzato al di fuori della sua orbita è visto come potenziale minaccia.
Anche quando i gruppi LGBTQ+ non hanno natura politica, vengono considerati nuclei di mobilitazione autonoma e dunque controllati o disciolti.
Nazionalismo culturale
L’identità queer viene spesso rappresentata come un’ “influenza occidentale” incompatibile con la cultura cinese.
Dal 2021, le autorità radiotelevisive hanno lanciato campagne per “promuovere la mascolinità tradizionale” e bandire dalla TV i cosiddetti niangpao (“uomini effeminati”).
La censura LGBTQ+ rientra pertanto in questa più ampia epurazione morale e culturale.
Effetti concreti sulla vita delle persone
Le conseguenze di questa repressione non sono solo simboliche per le persone in Cina.
La chiusura di spazi digitali e fisici ha un impatto diretto sulla salute mentale, sull’accesso ai servizi sanitari (test HIV, supporto psicologico, reti di aiuto) e sull’autopercezione di migliaia di giovani.
Nel caso delle app cancellate, non si trattava solo di dating: basti pensare che Blued ha collaborato con ONG e istituzioni sanitarie per fornire test HIV, kit a domicilio, campagne di educazione sessuale e servizi di telemedicina per la comunità gay in Cina. La loro rimozione oltre a colpire libertà di espressione, colpisce anche la salute pubblica.
Il risultato è una comunità sempre più frammentata, costretta a spostarsi su canali criptati o semi-clandestini, dove i rischi di sorveglianza e persecuzione sono più alti.
Il futuro: tra autocensura e resilienza
Il caso Blued/Finka è parte di una strategia più ampia di omologazione del cyberspazio e costituisce il più recente passo di un percorso avviato da tempo che si prefigge un obiettivo ben preciso: eliminare tutto ciò che sfugge al controllo politico e morale del Partito.
In questo scenario, non è possibile escludere che nei prossimi mesi le autorità amplino il raggio d’azione, estendendo le rimozioni a community e app tematiche, anche non direttamente legate all’attivismo LGBTQ+.
Tuttavia, la comunità queer cinese ha dimostrato una notevole resilienza digitale.
Molti gruppi si riorganizzano su piattaforme internazionali, su canali privati o tramite reti di solidarietà offline.
In un contesto di censura pervasiva, la sopravvivenza delle identità queer diventa un atto politico in sé.
La geopolitica dei diritti digitali
La rimozione delle app LGBTQ+ da parte di Apple non può qualificarsi come un incidente isolato, poiché rappresenta il sintomo di una tendenza globale, in cui le grandi piattaforme private diventano bracci operativi dei regimi autoritari e, tutto ciò, in nome della conformità normativa.
Lo schema è evidente: più Internet diventa centralizzato, più la censura si automatizza.
Quando la censura non è più opera diretta dello Stato, ma dell’infrastruttura tecnologica che tutti usiamo, la questione smette di riguardare solo la Cina.
Inizia, infatti, a riguardare il futuro stesso della libertà digitale e la capacità delle democrazie di difenderla.









